Il futuro ruolo delle imprese europee nella sfida commerciale globale.
di Francesco Rampone
Siamo in guerra. Non solo il conflitto armato che si combatte nell’Est Europa, ma anche quello commerciale che si combatte da molto più tempo e contro un avversario più temibile.
Si può convenzionalmente fissare l’inizio di questo conflitto al 2001, quando la Repubblica Popolare Cinese è entrata nel World Trade Organization segnando un momento chiave per la sua integrazione nell'economia globale. Da allora le imprese cinesi, già note per la forte delocalizzazione della produzione del Primo Mondo, hanno potuto pienamente abbracciare il modello economico capitalista e di libera impresa di stampo occidentale e hanno avuto pieno accesso ai mercati internazionali. Forte di una normativa praticamente inesistente in materia di diritti del lavoro e tutela della proprietà industriale, in esecuzione di decennali programmi di incentivi e investimenti statali, il “Celeste Impero” è diventato sempre più un temibile concorrente che pretende di avere le sue “aree di influenza”, dettare l’agenda politica mondiale e che ambisce, in una prospettiva geopolitica, a fare da contraltare al dominio economico e culturale degli Stati Uniti in un contesto multipolare.
Questa guerra si combatte, per il momento, su due fronti: quello tecnologico/informatico e quello commerciale.
Le istituzioni europee si sono rese conto da molto tempo che il Vecchio Continente deve ritrovare vigore e dinamismo se non vuole restare “vaso di coccio tra vasi di ferro” nella competizione globale. A tale riguardo, la recente e vasta produzione normativa che generalmente chiamiamo “compliance” ha proprio tale obiettivo: rendere la nostra economia resiliente di fronte a scenari di crisi e spronare le nostre imprese, indipendentemente da fattori contingenti, ad essere più performanti e competitive.
Può sembrare paradossale contrastare la concorrenza dall’Est con regolamenti e direttive, ma l’obbligo di implementare misure di sicurezza (analisi dei rischi e protocolli di prevenzione), di adottare modelli di governance (piani di controllo, procedure interne, sistema di deleghe, accountability), di tutelare il lavoratore, il consumatore e l’ecosistema (prospettiva degli stakeholder e target ESG), non deve essere percepito come un fardello imposto dai burocrati di Bruxelles a cui adeguarsi per evitare sanzioni, ma come una occasione per modernizzare l’azienda attraverso l’efficientamento dei processi, l’allocazione ottimale delle risorse, la corretta attribuzione di ruoli e responsabilità, la crescita di competenze, l’intercettazione di incentivi in ricerca e sviluppo, l’applicazione di tecnologie abilitanti.
In definitiva, il regolatore eurounitario si è posto l’obiettivo di incoraggiare le imprese a dotarsi di nuovi strumenti e tecniche di management.
Si badi bene, non si tratta di generici richiami ideologici ad un modo etico di fare impresa, ma di una strategia con i piedi ben piantati per terra il cui unico obiettivo è aumentare il fatturato e facilitare l’accesso al capitale! E numerosi studi dimostrano la bontà di tale approccio evidenziando la stretta correlazione positiva tra grado di compliance e performance aziendale.
Una metafora biologica può aiutarci a comprendere meglio questo fenomeno. Un organismo che agisce solo di istinto non si adatta facilmente alle mutate condizioni ambientali, né è in grado di adattare l’ambiente ai propri bisogni e fa fatica a raggiungere i rigidi obiettivi dettati dal suo corredo genetico. Anzi, di questi non è neanche consapevole. Lo sviluppo della coscienza in alcuni primati, invece, ci ha resi quello che siamo oggi, consapevoli delle relazioni causa-effetto che ci circondano e capaci di fare le migliori scelte per il nostro benessere. È così che siamo passati dal tempo in cui l’unica attività era la ricerca del cibo al giorno in cui abbiamo calpestato il suolo lunare.
Analogamente, un’impresa priva di processi funzionali e ben codificati, organigrammi strutturati ed effettivi, orientata solo al breve orizzonte dell’equilibrio di bilancio, è come un organismo che agisce e reagisce d’istinto, incapace di sopravvivere o prosperare nell’arena competitiva del mercato globale.
Una buona compliance, invece, anche per una PMI, genera una cultura d’impresa che libera forze latenti. La definizione (consapevolezza) degli obiettivi nel breve e medio periodo, la costruzione responsabile di una catena del valore, l’attenzione alla crescita e benessere dei dipendenti, l’analisi di scenari futuri e la mappatura dei rischi, la tutela e valorizzazione degli asset immateriali, la cognizione delle novità normative e fiscali, l’applicazione di gestionali di ultima generazione, sono tutti fattori trasformativi capaci di sprigionare un potenziale inespresso, migliorare l’efficienza operativa e rafforzare la competitività dell’azienda nel lungo periodo.
P.S.: percepire la sfida con le economie rivali in termini di “guerra” è efficacie da un punto di vista retorico, ma fuorviante ad una più attenta analisi. Se è vero che l’economia di mercato fatica a conciliarsi con forme di governo diverse dalla democrazia, è altrettanto vero che la cooperazione – a determinate condizioni – genera benefici maggiori per entrambi i contendenti rispetto alla competizione. Del resto, tornando all’analogia biologica, è proprio attraverso la cooperazione che siamo passati dalle cellule procariote ad essere organismi multicellulari e alle moderne società-nazioni. Il rapporto con altre imprese deve quindi essere visto in un quadro strategico più ampio che contempla anche ipotesi di co-evoluzione.