Antieconomicità e inerenza dei costi sono legate da un rapporto “sintomatico” che affonda le sue radici nel concetto di reddito d’impresa, inteso come differenza tra ricavi e costi, sue componenti imprescindibili.
Se di inerenza si parla da sempre, perché si tratta di principio immanente nel concetto stesso di reddito di impresa, di antieconomicità, invece, si parla soltanto da qualche decennio, da quando la Suprema Corte la ritiene indice sintomatico di non inerenza.
Secondo una datata posizione di legittimità, il principio d’inerenza del costo, ai fini della sua deducibilità, sarebbe riconducibile, sul piano normativo, all’articolo 109, comma 5, del Tuir, in base al quale “Le spese e gli altri componenti negativi... sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”.
Si tratta(va), però, di una posizione che non poteva ritenersi corretta, proprio perché, come riportato, l’inerenza risulta immanente nel sistema del reddito d’impresa, e non può quindi essere condizionata dall’imprescindibile conseguimento di ricavi; senza contare il fatto che la previsione citata disciplina altra questione, cioè quella dell’indeducibilità dei componenti negativi a fronte di ricavi e proventi esenti.
Di ciò se ne sono resi conto anche gli Ermellini che negli arresti più recenti hanno stabilito che il requisito di inerenza, ritenuto immanente nel sistema del reddito d’impresa (e non quindi derivando dall’articolo 109, comma 5, del Tuir) deve essere apprezzato esclusivamente in termini qualitativi, a prescindere da utilità e vantaggi apportati dal costo, nonché dalla sua congruità, essendo, in sostanza, sufficiente che il costo si correli all’attività in concreto esercitata dal contribuente (Cassazione 450/2018; conforme, Cassazione 3170/2018, 1610/2019, 30367/2019, 25350/2020, 26767/2020).
Nonostante tale evoluzione giurisprudenziale, tanto secondo la precedente posizione quanto in base alla nuova, l’onere della prova dei costi graverebbe comunque sul contribuente. In dottrina, invece, si è osservato che i costi, essendo, appunto, parte del concetto stesso di reddito impresa, sono fisiologicamente inerenti, spettando al Fisco, che ne contesti la deducibilità, dimostrare il contrario.
Tutto ciò impatta sull’altra questione menzionata in apertura: l’antieconomicità dei costi. Se, infatti, Cassazione 450/2018 - leading case del nuovo filone giurisprudenziale sul concetto di inerenza - sembrava inizialmente escludere qualsivoglia giudizio quantitativo da parte del Fisco, atteso che pareva esser venuta meno la necessità di una valutazione di congruità e utilità della spesa o del costo, con la di poco successiva sentenza 18904/2018 la Suprema Corte si affrettava a puntualizzare che il giudizio quantitativo o di congruità non è del tutto irrilevante, collocandosi, invero, nell’ambito dell’onere probatorio dell’inerenza del costo: la dimostrata sproporzione assume valore sintomatico, di indice rivelatore, in ordine al fatto che il rapporto in cui il costo si inserisce è diverso ed estraneo all’attività d’impresa, ossia che l’atto, in realtà, non è correlato alla produzione, ma assolve ad altre finalità e, pertanto, il requisito dell’inerenza è inesistente.
Insomma, l’antieconomicità è indice di non inerenza, ma non la prova di essa. Quindi, per ricondurre la questione alla giusta misura, pare potersi utilizzare l’indicazione del formante nomofilattico in base al quale la contestazione di antieconomicità da parte dell’Ufficio non può risolversi in una mera non condivisibilità della scelta imprenditoriale, ma deve tendere, sulla base di elementi oggettivi, alla determinazione di un giudizio di inerenza negativo, per cui l’inattendibilità della condotta va dimostrata dall’Amministrazione finanziaria, gravando - poi - sul contribuente l’onere di provare la regolarità delle operazioni effettuate (Cassazione 25257/2017, 21869/2016).
In questa direzione pare deporre anche la recente Cassazione 6426/2025, riguardante il caso di una S.p.a. operante nel settore della distribuzione di gas, la quale aveva sostenuto e dedotto dei costi per l’installazione di un impianto (vaso espansore) per lo svolgimento della sua attività d’impresa. L’Ufficio aveva recuperato a tassazione i costi per antieconomicità, limitandosi a eccepire che tali costi non sarebbero stati correlati alla produzione di ricavi, poiché questi ultimi erano irrilevanti negli anni precedenti e addirittura assenti nel periodo d’imposta accertato.
La Suprema Corte ha ricordato, innanzitutto, che l’antieconomicità di un costo - intesa come sproporzione tra la spesa e l’utilità che ne deriva, avuto riguardo agli ulteriori dati contabili dell’impresa - può fungere soltanto da elemento sintomatico del difetto di inerenza, e in questo caso, ove il contribuente indichi i fatti che consentano di ricondurre il costo all’attività d’impresa, l’Amministrazione finanziaria è tenuta a dimostrare, anche con il ricorso a indizi, gli ulteriori elementi addotti in senso contrario, evidenziando, in particolare, l’inattendibilità della condotta del contribuente.
Nella specie, i giudici di merito avevano già accertato che l’operazione si risolveva in un investimento e non in un’operazione “elusiva”, in tal senso reputando irrilevante il dato quantitativo dei ricavi. Decisione confermata dalla Cassazione.
In effetti, la contestazione di antieconomicità, in questo caso, neppure era sostenuta da elementi probatori - che gravano necessariamente sul Fisco (anche secondo l’orientamento di legittimità) - tali da far comprendere le ragioni per cui i costi degli investimenti effettuati in impianti dovessero ritenersi non economici, al di là del mancato conseguimento dei ricavi, che, per quanto già sopra espresso, anche secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, non rileva.
Peraltro, inevitabilmente, trattandosi di investimenti, i risultati non possono che giungere col tempo e, quindi, anche a voler (erroneamente) considerare i ricavi quali condizione vincolante per la deducibilità, non si può che aver riguardo ai ricavi dei periodi d’imposta successivi e non certo di quello di sostenimento dei costi né tanto più di quelli precedenti alla spesa, che men che meno contano in proposito.
A tacer poi del fatto - concludendo - che, sebbene nello specifico caso si trattasse di una S.p.a., era comunque una società a totale partecipazione pubblica (utility di un Comune), per cui i concetti di economicità e antieconomicità avrebbero potuto trovare particolari deroghe in forza dell’assoggettamento a logiche di politiche sociali e utilità pubblica.