La sentenza n. 3800/2025 della Suprema Corte di Cassazione è una di quelle sentenze che meritano di essere lette. Anche se poi non si vogliono condividere, almeno in pieno.
Questo perché è una sentenza dotta, ricca, che inquadra adeguatamente la fattispecie per ricercare una soluzione ad esito di un ampio inquadramento sistematico. Offrendo più di una soluzione. Ciò per dire che non è possibile liquidare la sentenza con un commento sommario, perché costringe, in ogni caso, ad argomentare diffusamente.
Si deve allora subito riconoscere che talune affermazioni compiute dalla Corte appaiono condivisibili.
Certamente, appare corretto laddove la Corte circoscrive l’articolo 21-bis del DLgs. n. 74/2000, chiarendo che restano escluse dalla sua operatività le sentenze di condanna, le sentenze di assoluzione e di proscioglimento con formule differenti da quelle indicate dalla norma (come ad esempio che il fatto non costituisce reato, il fatto non è previsto come reato, la formale improcedibilità), i procedimenti di archiviazione, le sentenze di applicazione della pena (ex articolo 444 C.p.p.), le sentenze emesse ad esito del giudizio abbreviato. È una precisazione corretta, perché con ogni evidenza l’articolo 21-bis presuppone un accertamento compiuto del fatto, ad esito di un dibattimento e, soprattutto, esige una formula assolutoria che specifichi esattamente che “il fatto non sussiste” ovvero che “l’imputato non lo ha commesso”. Solo così si può giustificare un’efficacia della sentenza anche sul processo tributario, proprio perché presuppone accertamenti di realtà storiche compiuti in modo completo ed utili ad essere rilevanti anche in quest’ultimo.
Altre considerazioni che appaiono corrette è che l’articolo 21-bis torna applicabile anche per violazioni commesse prima del 1° settembre 2024, non ricadendo nella previsione contenuta nell’articolo 5 del DLgs n. 87/2024, che rinvia l’applicazione delle previsioni afferenti le sanzioni amministrative.
Vi è poi un chiarimento assi utile per i ricorsi in Cassazione, di cui occorrerà assolutamente tenere conto. Per invocare in quella sede l’articolo 21-bis non basterà una mera allegazione della sentenza penale ma occorrerà indicare nel ricorso gli specifici fatti ed elementi, accertati in sede penale, rispetto ai quali viene ravvisata l’identità con quelli impiegati nell’accertamento tributario, rispetto cui si sollecita il giudicato.
Infine, la Corte chiarisce un ulteriore importante principio. L’assoluzione in sede penale, che consente di reclamare il giudicato, deve avvenire ai sensi dell’articolo 530, comma 1, c.p.p. Occorre, infatti, che sia offerta la prova positiva dell’innocenza dell’imputato sicché non può valere quando l’assoluzione è pronunciata in virtù dell’articolo 530, comma 2, c.p.p., dove viene solo riconosciuta la prova negativa della sua responsabilità. In questo secondo caso, in effetti, l’assoluzione non passa per l’accertamento giudiziale che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso, bensì sulla mera presa d’atto dell’impossibilità di provare adeguatamente la sua responsabilità per insufficienza degli elementi di prova. Sicché, correttamente, la Corte esclude che in questo caso possa essere invocato il giudicato fuori dalla sede penale.
Dove, invece, la sentenza non convince è nell’enunciazione del principio di diritto. Ad avviso della Suprema Corte, infatti, l’articolo 21-bis varrebbe solo limitatamente alle sanzioni, mentre per l’imposta la sentenza passata in giudicato costituirebbe solo uno dei diversi elementi che il giudice tributario è chiamato a valutare. Nessun effetto automatico, insomma.
È chiaro che in questo modo viene data una lettura riduttiva dell’articolo 21-bis.
La Corte smarca la facile obiezione per cui il medesimo principio sembrerebbe già enunciato, negli stessi termini, dall’articolo 21. Per la Corte, però, mentre l’articolo 21 si occupa della riscossione delle sanzioni, l’articolo 21-bis introdurrebbe una regola corrispondente per la fase del giudizio.
Sennonché, quello che la Corte non considera è che l’accertamento del fatto ai fini sanzionatori, nel processo e nel procedimento tributario, non è mai autonomo per sanzioni ed imposta. Tant’è che l’accertamento non è mai motivato in punto di sanzioni, desumendosi la responsabilità direttamente e solo dalla commissione del fatto evasivo.
Sicché, se vi è un accertamento che ha stato di giudicato relativamente alle sanzioni, diventa inevitabile sostenere che il medesimo effetto lo debba avere anche per le imposte. Del resto, quando l’articolo 21-bis, al comma 3, prevede che l’effetto di giudicato vale anche per il contribuente e non solo per chi lo rappresenta (che ha subìto il processo penale) è chiaro che intenda far valere detto giudicato anche per le imposte, proprio perché il rappresentato è l’unico chiamato a pagarle.
Insomma, la soluzione professata dalla Corte circa l’applicazione dell’articolo 21-bis non convince. È infatti difficile immaginare che il giudice, chiamato ad accertare un unico fatto ai fini dell’imposta e delle sanzioni, debba accettare come giudicato l’accertamento penale del fatto solo per le sanzioni e non anche per l’imposta, nonostante che l’accertamento per le sanzioni sia subordinato concettualmente e praticamente a quello dell’imposta. Non solo i fatti sono medesimi, ma quelli rilevanti per le sanzioni dipendono in tutto da quelli rilevanti per l’imposta.
Proprio per come è congegnata in sede tributaria la responsabilità sanzionatoria, che risulta strettamente dipendente da quella per l’imposta, appare insomma inconcepibile ipotizzare un differente accertamento sui relativi fatti costitutivi.