Quando un post ti costa il posto: il confine (sottile) tra critica e diffamazione sui social
di Claudio Garau
Oggi chiunque può esprimere la sua opinione su un social network. Ma attenzione perché, oltre alla correttezza e aderenza alla realtà di ciò che si scrive, ogni singolo cittadino dovrebbe fare molta attenzione al tono delle sue frasi e alla possibile lesività per una o più persone.
C’è chi, tra le mura domestiche e “nascosto” dietro lo schermo del pc o smartphone – sentendosi quindi protetto (anche troppo) – magari in un momento di pessimo umore o per il nervosismo scaturito da una decisione aziendale non condivisa, si lascia andare a commenti fin troppo…disinvolti e tali da far sorgere interrogativi in ambito disciplinare.
Fino a che punto, sui social network e nelle app che mettono in comunicazione più persone, è quindi tutelabile il diritto di critica del lavoratore subordinato nei confronti dell’azienda? E quando, invece, dal piano della libera opinione si passa a quello della violazione disciplinare o dell’illecito penale? Si può essere licenziati per un post al vetriolo sulla bacheca di Facebook o per un commento pubblico e carico di coloriti epiteti?
La questione del diritto di critica dell’azienda sui social, specie da parte di lavoratori o ex dipendenti, si colloca all’intersezione tra libertà di espressione, doveri contrattuali e tutela della reputazione. Va da sé – quindi – che non esista una risposta univoca in merito alle possibili conseguenze per tutti i commenti o critiche “digitali”, ma – di volta in volta e sul solco dei chiarimenti offerti dalla giurisprudenza – è opportuno fare dei distinguo.
Anzitutto ricordiamo che il diritto di critica e – più in generale – di manifestare liberamente il proprio pensiero, trova fondamento nell’articolo 21 della Costituzione. E, in ambito lavorativo, in materia di libertà di opinione rileva anche l’articolo 1 dello Statuto dei lavoratori. Ma attenzione, perché non si tratta di un diritto assoluto, incontrando limiti quando entra in conflitto con altri diritti costituzionalmente garantiti, come quello all’onore e alla reputazione (articolo 2 Costituzione), o alla tutela dell’immagine e del decoro dell’azienda, di cui sono pilastri lealtà e buona fede nel rapporto di lavoro (articolo 2105 c.c.).
In linea generale – e seguendo il consolidato indirizzo giurisprudenziale – si può essere licenziati per giusta causa per un post su un social network, se le frasi in esso contenute – avendo una connotazione offensiva o diffamatoria – palesano una lesione del vincolo fiduciario con l’azienda.
Ad esempio, con sentenza del 2018, il Tribunale di Roma ha affermato che i messaggi che su Facebook – o altro social network – recano offesa all’azienda, giustificano il licenziamento disciplinare non soltanto quando sono “pubblici” – e cioè resi visibili e conoscibili potenzialmente a tutti – ma anche quando il profilo digitale sia accessibile soltanto agli “amici”, essendo questi ultimi una cerchia potenzialmente indefinita di soggetti.
Non solo. Insultare il proprio capo su Internet, criticare con termini pesanti, volgari e volutamente esagerati l’operato dell’azienda sono condotte che possono integrare gli estremi del reato di diffamazione aggravata – di cui all’articolo 595 del Codice Penale (comunicazione con mezzo di pubblicità) – compromettendo irreparabilmente il rapporto fiduciario, giustificando il licenziamento per giusta causa e aprendo la strada al risarcimento danni in sede penale. Il reato si fonda sull’offesa o lesione dell’altrui reputazione, ossia l’onore inteso in chiave soggettiva, come considerazione che la società ha del soggetto stesso. E, a ben vedere, può potenzialmente applicarsi il reato di rivelazione di segreti aziendali (articolo 623 C.p.), se il contenuto della critica svela dati riservati o strategie interne dell’azienda.
La dominante linea giurisprudenziale è stata ribadita, circa un anno fa, dall’ordinanza 12142/2024 della Cassazione, secondo cui la diffusione di un messaggio denigratorio sui social network, oltre a giustificare l’espulsione del dipendente, integra “gli estremi della diffamazione, per la attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone”.
Questo principio è stato applicato al di là delle impostazioni della privacy sul profilo dell’utente: come accennato, anche i post visibili solo con accesso ristretto ad alcuni utenti possono facilmente sfuggire al controllo del loro autore e superare i limiti della confidenzialità, raggiungendo moltissime persone.
Ma – quindi – come evitare il rischio di farsi prendere dall’impeto e dall’impulsività di un grave attacco verbale a un superiore, al capo, all’organizzazione aziendale o a tutto ciò che non è gradito all’interno dell’ufficio? Ebbene, ci sono alcuni limiti inquadrati dai giudici, che debbono guidare il dipendente scontento.
A tutela della reputazione e dignità individuale, la Cassazione ha più volte spiegato che il diritto di critica deve essere esercitato nel rispetto dei limiti della continenza formale e sostanziale, ossia usando un linguaggio civile e rispettoso, senza ledere la dignità morale, personale o professionale del datore.
In altre parole, le espressioni utilizzate nei commenti pubblici sui social devono essere proporzionate rispetto ai fatti narrati senza cadere – come sottolinea anche la Cassazione nella sentenza n. 27939/2021 – nella gratuita denigrazione, nelle accuse infamanti o in riferimenti volgari e deformazioni tali da suscitare disprezzo e dileggio. Non solo. Tali espressioni debbono essere pertinenti – ossia riguardanti l’attività lavorativa in sé e non la sfera privata di chi è oggetto di critica digitale – e riferite a fatti realmente accaduti (e quindi provati o dimostrabili). Per converso, se la critica si basa su circostanze false o non provate, può diventare diffamatoria. Di ciò si trova conferma in numerose sentenze dei giudici di piazza Cavour, tra cui la n. 1379/2019.
A corollario, in una differente ordinanza – la 28828/2024 – la Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento del dipendente per un post su Facebook che si riferisce alla vecchia gestione aziendale o ex datore di lavoro, disponendo la reintegra in ufficio perché la critica asseritamente lesiva non conteneva alcun riferimento, diretto o indiretto, all’attuale società datrice.
Ovviamente, ai fini di giustificare il recesso presso il giudice del lavoro, l’onere della prova del comportamento lesivo ricadrà sul datore di lavoro, come stabilito dall’articolo 5 della legge 604/1966. Mentre, in un possibile e distinto giudizio penale, egli dovrà documentare i commenti pubblici e diffamatori (con screenshot, link, account, numero di visualizzazioni ecc.), per dimostrare l’effettivo reato e il danno all’immagine o patrimoniale subìto (ad es. perdita di clienti, disdette, calo vendite), e vedersi riconosciuto il risarcimento danni in quanto parte offesa.
Attenzione però, come spiegato nell’ordinanza 21965/2018 e nella sentenza 5936/2025 della Cassazione, se l’insulto è pronunciato in una chat privata o gruppo chiuso e accessibile solo ad alcuni colleghi (si pensi ad es. all’apposito servizio Whatsapp), l’eventuale fuga di notizie lesive – per una “spiata” – non giustificherà il licenziamento perché la segretezza della corrispondenza è costituzionalmente protetta (lo ha ribadito la Consulta nella sentenza 20/2017). Come a voler dire che manca l’illecito – e non solo la prova.